Vite che parlano: padre Pippo Giordano

Padre Giuseppe Giordano è un Missionario Oblato di Maria Immacolata. Originario di Patti, in provincia di Messina, si trova in Guinea Bissau, uno dei paesi più poveri del mondo. Per molti anni padre Giuseppe, padre Pippo per tutti, ha svolto il suo ministero anche in Senegal, sia in zone rurali come alla periferia di Dakar.

 

Padre Pippo, per oltre trent’anni sei stato in Senegal e ora ti trovi in Guinea Bissau. Quarant’anni di vita missionaria! Cos’è per te la missione?

Per me essere missionario è la risposta ad una chiamata che non è stata una voce o un grido, ma l’aver percepito e sperimentato l’amore di Dio. Quando avevo 16 anni ho fatto una scoperta semplice: la parola di Dio è una ricchezza non solo da ascoltare per conoscerla, ma soprattutto da vivere per riempirsene il cuore e la vita. Da qui la scoperta di poter diventare testimoni per trasmettere questa Parola, e quindi di spendere la vita, come Gesù, per gli altri, per comunicare a tutti questa ricchezza, per dare a tutti lo stesso amore sperimentato.

E qual è il tuo sogno di missione?

Il mio sogno è racchiuso nell’articolo 37 delle nostre Costituzioni e Regole: viviamo la nostra missione nella comunità e tramite la comunità. Vivendo nell’amore reciproco, dando la vita gli uni per gli altri, sperimentiamo la comunione e la presenza di Gesù tra di noi: a questo punto se Gesù c’è, tutti lo possono percepire e comunque è Lui che ci manda ad annunciarlo e a testimoniarlo agli altri. Questo a volte ci chiede di aspettare, ci chiede di non seguire di corsa una intuizione finché la comunità non la fa sua; richiede pazienza, ma assicura la vera missione della Chiesa, non la mia.

Cosa ti piace di più della tua vita missionaria?

A me piace quando posso contribuire a fare andare avanti il Regno di Dio, la Chiesa;  per certi aspetti, attualmente, ci sono diverse gratificazioni nel senso che i giovani, soprattutto, sono molto attenti e il fatto che ogni anno a Bissau battezziamo fino a 600 fra giovani, adulti e adolescenti (ma anche a Dakar erano centinaia), mostra l’impatto del Vangelo su tutta questa gente, anche se poi, una volta battezzati, bisogna seguirli ancora perché approfondiscano e vivano da cristiani. L’altra cosa che a me piace molto è quando nella comunità dove vivo siamo uniti con uno stesso scopo, con lo stesso amore verso gli altri per aiutare i poveri e annunciare loro Gesù.

Che messaggio vorresti trasmettere ai nostri lettori?

Credo che abbiamo tutti l’opportunità di essere missionari, oggi anche fisicamente abbiamo tanta gente di colore in mezzo a noi e credo che non è l’invito a venire in Chiesa che può convincerli ma una vera testimonianza di vita cristiana. Mi ricordo che quando ero a Dakar stavano costruendo un palazzo vicino alla chiesa e chiedevo: «ma chi ha i soldi per costruire?». Alla fine dei lavori vedo arrivare nell’ufficio della missione un signore ben distinto, ben vestito, e, rivolgendosi a me, dice: «Ho saputo che ha chiesto di quella casa, sono io il proprietario, senegalese, abito in Italia, a Firenze; devo dire che gli italiani ci aiutano, ci accolgono, non sono razzisti, però bestemmiano!». Per lui, musulmano, questa abitudine era come una coltellata, perché – mi diceva – «bestemmiare significa negare sé stessi». Abbiamo questa grande opportunità di essere missionari insieme, il posto non conta, l’Africa, Patti, altrove, ma l’importante è che percepiamo quanto Gesù ha detto a ognuno di noi: «Andate in tutto il mondo e annunciate quello che vi ho detto». Si tratta di ascoltare il Vangelo, di sentirlo, di viverlo, per poterlo trasmettere.

Puoi dirci qualche parola chiave del tuo vivere la missione?

Ho già parlato della comunità che è come la prima parte del testamento di sant’Eugenio per gli Oblati. Lo zelo per le anime oggi significa star vicino. Soprattutto in contesti nuovi, dove dobbiamo imparare le lingue, scoprire i costumi, entrare in una mentalità ed una cultura diverse, è importantissimo avvicinare la gente per “sentirla” vicina e per farci prossimi, nel senso della parabola del buon samaritano. Questo mi ha fatto scoprire dei valori religiosi e sociali che non avrei mai pensato. La loro fede in Dio che è fiducia concreta e diventa solidarietà mi ha sempre evangelizzato, a me missionario. Ad esempio, negli anni di siccità, quando si è seminato il miglio fino a cinque volte, senza ricavarne niente, i discorsi e i commenti andavano sempre sullo stesso argomento, si guardava il cielo sperando l’impossibile, ma alla fine nessuna bestemmia, ma una certezza: Roog a faaxa, Yalla baxna: Dio è buono! E questa fiducia smisurata diventava solidarietà perché chi aveva ancora qualcosa la condivideva con chi non aveva più niente, pur sapendo che il poco miglio che sta nel granaio non può arrivare al prossimo raccolto, che forse non ci sarà.

Farsi prossimo ha voluto dire procurare miglio e riso da mangiare, scavare dei pozzi per dare l’acqua necessaria a tanti villaggi, per permettere alle donne di fare dei pozzi. Ha significato sostenere le suore o fratel Benoit nella cura dei malati. Ma soprattutto, pensare al futuro, dare delle canne per pescare, che sono stati gli orti nella savana, la creazione di gruppi di interesse economico, che hanno tolto dalla mendicanza decine di donne. Ed aiutare i bambini e i giovani perché ricevano una educazione ed una istruzione di qualità, anche nei piccoli villaggi, o nelle famiglie più povere, tramite la costruzione di scuole, la formazione degli educatori e l’adozione dei bambini e giovani più poveri. Alcune delle nostre scuole sono state le migliori a livello regionale, i nostri alunni sono sempre i migliori ed oggi sono maestri e professori, dottori, giornalisti… Tutto questo perché abbiamo amato di più, perché il Vangelo si è incarnato e Gesù continua a vivere tra di noi.

(Tratto dal periodico pattese «In cammino» Estate 2022)