Vite che parlano: fratel Silvio Bertolini omi

Fratel Silvio Bertolini è un Missionario Oblato di Maria Immacolata ed è originario di Brescia. Dopo una ventina d’anni in Senegal e un periodo di qualche anno in Italia, si trova ora nella missione del Sahara Occidentale.

Silvio, ci dici qualcosa della tua vita?

Molti di voi forse mi conoscono già, altri avranno sentito parlare di me, per altri ancora sono sconosciuto visto che ho passato tanti anni in Africa. Sono un fratello Oblato di Maria Immacolata, cioè sono un consacrato ma non sacerdote. Entrato al centro giovanile di Marino nel 1984, due anni più tardi ho fatto la prima professione consacrando la mia vita a Dio e cercando di vivere il carisma di Sant’Eugenio de Mazenod, il nostro Fondatore: «l’annuncio di Cristo ai più poveri». Nel 1990 ho detto il mio «Si» per sempre facendo i voti perpetui. La prima obbedienza è stata per lo scolasticato di Vermicino, 4 anni, ma sin da ragazzo il mio desiderio era di poter partire in quei posti chiamati allora «Terre di missione». Così nel 1994 ricevo finalmente l’obbedienza per il Senegal, dove sono rimasto per una ventina d’anni. In questo tempo è maturato in me il mio modo di concepire e vivere la missione.

Hai passato tanti anni in Africa. Cosa puoi dirci della tua vita missionaria?

Come prima cosa credo fermamente che ciascuno di noi è un pezzetto di un puzzle che contribuisce nel suo piccolo a completare un «Insieme», che ciascuno è stato pensato da sempre per quel posto che magari non è il posto centrale ma che se manca lascia un’«opera incompleta»; questo pezzetto di carta, con forme a volte strane, ha il suo compito ben preciso: la missione che gli è stata affidata e che è scritta nel DNA di ognuno di noi. Non sempre questo «posto» lo troviamo subito e qualche volta questo pezzo si perde. Così è la nostra vita, a volte vorremmo che il nostro «posto» fosse più centrale, a volte più laterale; a volte, nella nostra libertà, rifiutiamo di rispondere a questa «missione» rischiando una vita incompleta e non sempre soddisfacente. Così è stato per me; capire quale fosse il mio posto non è stato facile in quegli anni e forse, come il navigatore, ogni tanto ho dovuto aggiornare il percorso che porta alla meta.

Silvio, ci hai raccontato un pò del tuo percorso di vita, molto bello e importante. Cosa puoi dirci del tuo essere missione?

L’evangelizzazione per me ha preso spunto da una frase di Sant’Eugenio che spiegava l’atteggiamento dell’Oblato verso le persone che incontrava nella sua missione: «aiutarli a diventare Uomini, poi Cristiani e infine Santi», soprattutto la prima parte di questa frase mi ha affascinato ed è diventata per me come «la mia missione»: Aiutarli a diventare Uomini.

Non perché non lo fossero, anzi! in questi anni devo dire che ho ricevuto tanto da loro… Aiutarli per me era sinonimo di «restare accanto» per poter raggiungere insieme quella dignità che è dovuta ad ogni essere umano. Ed allora svolgevo questa mia missione in modo diretto o indiretto, scavando fondamenta, trasportando cemento con la piroga, installando impianti idrici o elettrici oppure anche dietro ad una scrivania facendo da tramite per tante realizzazioni di pozzi d’acqua, di mulini per le donne o scuole, asili. Quante realizzazioni al servizio dell’uomo e della collettività abbiamo realizzato come comunità oblata! Si, come comunità! In questo modo, a volte le idee possono divergere ed il cammino per poter arrivare alla realizzazione può essere più lungo ma certamente non finisce con la persona che ha fatto l’opera; essa continua anche quando la persona non è più lì perché la comunità ne assicura la continuazione.

Tu dici che ci sono tanti tipi di missione. In che senso?

Quando penso alla missione, penso non solo a quella verso gli altri, ma anche a quella che abbiamo verso noi stessi; non sempre, se siamo obbiettivi, questa è più facile dell’altra. Saper riconoscere i propri limiti e «lavorare seriamente a diventare santi», (ecco un’altra delle belle frasi che ci ha lasciato Sant’Eugenio): spesso mi accorgo che questo impegno non è al primo posto. Sarei tentato di invocare la legge dei vasi comunicanti, quando lavori per gli altri lavori per cambiare te stesso e poi mi domando… ma è proprio così?

Puoi dirci qualcosa di particolare del tuo vivere la missione?

Un aspetto importante per me della missione è la disponibilità al cambiamento. Ci innamoriamo dei luoghi, delle persone e forse anche della povertà; dopo 20 anni, inconsciamente, rischiamo di sentirci parte indispensabile di quel progetto che stai realizzando. A questo punto, e non sempre è facile, è bene ricominciare in un nuovo luogo o in un altro che si conosce già ma che negli anni di assenza è cambiato, e poi un altro ancora… Ora sono nel Sahara Occidentale.

Cosa ci puoi dire di questo Paese?

I Missionari Oblati di Maria Immacolata sono giunti nel Sahara nel 1954, quando il controllo spagnolo dell’area era totale e la presenza dei cattolici contava alcune migliaia di persone. Nel 1979, dopo la partenza degli Spagnoli ed essendo rimasti solo pochi cristiani, la Santa Sede ci ha chiesto di non abbandonare la nostra presenza come Chiesa. Solo due Oblati rimarranno come sacerdoti in un territorio enorme grande quasi quanto l’Italia con due parrocchie che distano 520 km l’una dall’altra, cercando di assicurare il servizio religioso per gli stranieri cristiani e mantenendo buoni rapporti di dialogo con i musulmani del luogo. Da alcuni anni in diverse parti del Marocco e di conseguenza anche nel Sahara, è aumentata la presenza di migranti che sognano di raggiungere le coste dell’Europa ed allora la presenza oblata è raddoppiata ed è proprio qui che sono atterrato per restare.

Silvio, grazie. Ci conosciamo da tanti anni e sono felice che tu sia potuto tornare in Africa. Ci vuoi lasciare un’ultima parola?

Se dovessi sintetizzare in pochissime parole cosa penso sia la missione per me religioso fratello, direi che è rispondere ad una chiamata che sento chiara, quasi palpabile, in un rapporto fraterno nel dialogo e nella prossimità, nell’ascolto e nell’aiuto e nei diversi bisogni della gente.

A cura di Flavio Facchin omi