Vite che parlano: Carmine Scognamiglio

Fratel Carmine è un Missionario Oblato di Maria Immacolata. Nato a Napoli, è stato per diversi anni «in missione» in Uruguay. Rientrato in Italia, ha partecipato attivamente al Movimento Scout ed è stato professore di religione. Da alcuni anni vive nella casa amministrativa della Provincia Mediterranea dei Missionari Oblati di Maria Immacolata a Vermicino, Roma.

Carmine, tu sei un Missionario Oblato di Maria Immacolata. Sei stato per una ventina d’anni in Uruguay e in seguito a Pescara, a Napoli e a Roma. Cos’è per te la missione?

Vi parlo con un po’ di imbarazzo. Spesso mi è stato chiesto «chi è il missionario», cosa fa, da dove viene… Talvolta mi pare che il missionario venga confuso con un populista o un idealista. Mi si chiede, ancora, se un missionario fa della filantropia nei Paesi in via di sviluppo, se è un membro di un ente religioso o altro ancora. Per me non è niente di tutto questo.

Tempo fa, coloro che ricevevano il mandato per l’evangelizzazione nei Paesi dell’emisfero Sud o per i Paesi orientali, partivano con un biglietto di sola andata, senza il ritorno. Il passato fa ormai parte della storia e oggi i tempi sono diversi. Non ho mai parlato di me pensando che l’ascoltatore leggesse la mia autobiografia, non ho mai capito a cosa servono le autobiografie se non si crea una conoscenza previa. Penso che il missionario sia colui che scopre di essere portatore di un dono che è la fede. I miei genitori mi hanno consacrato, sono loro che mi hanno consacrato, mi hanno fatto ricevere il battesimo e mi hanno comunicato la fede. Una fede che, una volta adulto, si trasforma in carità e in prossimità. E questo vale per tutta la vita, anche alla mia età (ho 78 anni). Per farmi incontro, e quindi per farmi missione, devo uscire da me stesso, devo farmi vicino alla gente, devo vivere con loro…

Parlaci di quando sei partito per l’America Latina.

Partii per l’Uruguay nel novembre del 1972. Quando partii dall’Italia avevo 27 anni e lasciai le cose più care che avevo: i miei genitori, i familiari, gli amici. In quel periodo storico stavano entrando nelle nostre case la televisione, il frigorifero, la lavastoviglie, la lavatrice, la macchina da scrivere Olivetti 35 e poi quelle elettroniche; c’era il telefono a gettoni nei bar e poi quello fisso in casa, e così via… Lasciai questo mondo e tutte queste cose alle mie spalle, senza rimpianti o nostalgie, solamente con il desiderio di andare, di conoscere, di comunicare. Mi ritrovai a vivere in una comunità dove i miei confratelli avevano già 25/30 anni di vita missionaria. Erano francesi, spagnoli e italiani. Vivere con loro fu per me una scuola di formazione alla missione. Nei primi mesi del 1973 in Uruguay ci fu un colpo di Stato con l’Esercito che prese il potere; in pochi anni in tutta l’America Latina c’erano dei generali dell’Esercito al potere. Sono stati anni duri e tristi, fatti di sequestri di persona e di incarcerazione di uomini politici o di manifestanti, spesso di semplici uomini e donne. Erano vietati tutti gli incontri di carattere religioso senza i dovuti permessi delle autorità militari di turno. La gente viveva in un clima di terrore e i giovani lasciavano il Paese. Restavano gli adulti e gli anziani. Davanti a questa realtà di sofferenza ci si chiedeva perché Dio avesse abbandonato questa gente, perché ci aveva abbandonato? Inoltre, l’Uruguay era un Paese super laico, dove la realtà religiosa non aveva e ancora oggi non ha spazio.

Carmine, cosa avete fatto in questa situazione?

Al di là delle proprie radici e provenienze, al di là delle proprie convinzioni o appartenenze politiche, mi dicevo che ogni persona ha qualcosa da offrire, qualcosa da donare o da insegnare, qualcosa da trasmettere… Mi proponevo di andare al di là di un giudizio perché Gesù stesso ci mette in guardia dal giudicare. Il giudizio è una trappola mortale che mette a tacere una persona, la strangola e la uccide. Come missionario ho cercato di «essere un fazzoletto» per asciugare le lacrime e il sudore dei poveri. Vivendo in queste realtà di povertà ci siamo organizzati per offrire il «merendero» (dei panini o qualcosa da mangiare) ai poveri, oppure dei primi soccorsi sanitari o dei corsi di scuola elementare, di economia domestica, e così via. L’unico pensiero era che non dovevamo star lì a chiederci di chi fossero le colpe per le povertà e le miserie che si erano venute a creare, ma che bisognava fare qualcosa per venire in aiuto a queste persone. Nel volto di un uomo o di una donna c’era il volto di Gesù.

Cosa ti piace di più della tua vita intesa come una vita missionaria?

Come missionario mi piace pensarmi in continua scoperta del mistero dell’Incarnazione. Penso che Dio si fa presente in ogni uomo e in ogni donna, si fa prossimo, si fa vicino, cammina con la gente, con le loro gioie e le loro fatiche. Come missionario mi sento interpellato a essere luce e sale della terra, a mischiarmi nella massa della gente per essere questa luce e questo sale che è il Signore stesso. Come missionario… devo essere missionario, che poi è la vocazione di ogni battezzato, di ogni figlio e figlia di Dio. Dico a ciascuno: vivi il tuo oggi, ovunque tu sia, nella tua terra o nella tua città senza aspettare che altri facciano quello che tu puoi fare. Scrivi le pagine di Vangelo che Dio ti affida…

Che messaggio vorresti trasmettere ai nostri lettori?

Ormai, come dice papa Francesco, tanta gente vive di piccoli espedienti, si affatica per il vivere quotidiano, tante famiglie vivono con difficoltà a causa del caro vita. La Chiesa è un ospedale da campo che offre accoglienza, una parola, un conforto, un aiuto se può. Noi facciamo parte di questo ospedale da campo e non dobbiamo lasciare niente di intentato per venire in aiuto ai poveri. Sono nostri fratelli, sono nostre sorelle. Siamo tutti fratelli e sorelle, figli e figlie di Dio.

A cura di Flavio Facchin omi