Vite che parlano: Bruno Favero

Padre Bruno Favero, originario di Oné di Fonte in provincia di Treviso, fa parte della Congregazione dei Missionari Oblati di Maria Immacolata e da trent’anni è missionario in Senegal.  È stato Superiore della Delegazione oblata del Senegal e Guinea Bissau e, dopo aver lavorato nelle missioni di Djilas e Temento, da qualche anno è parroco a Elinkine e rettore del santuario della diocesi di Ziguinchor, nel Sud del Senegal, dedicato a «Nostra Signora della Missione.

Bruno, abbiamo passato qualche anno di vita missionaria insieme. Prima a Temento, una ventina d’anni fa, e poi nella casa amministrativa di Dakar. Conosciamo la tua passione e il tuo impegno per la missione. Puoi dirci, in qualche parola, cos’è per te la missione? Cosa significa per te essere missionario?

«Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (Gv 20,21). La missione è essenzialmente partecipare alla Missione di Cristo, l’inviato del Padre per portare al mondo il messaggio di pace del Vangelo. Per cui la missione è sempre andare, uscire da sè stessi, dal proprio paese per andare incontro agli uomini ed alle donne, ovunque essi siano e condividere la buona notizia del Vangelo, che, cioè, Dio ama tutti e specialmente i piccoli. È evidente, come spesso dice Papa Francesco, che annuncio e testimonianza vanno insieme, non si possono scindere. La Parola si fa carne nella testimonianza e la testimonianza dona forza alla Parola. Inoltre, l’urgenza della missione si fa sentire sempre di più, non solo per i popoli lontani ma specialmente nei nostri Paesi. La scristianizzazione dell’Europa e del mondo occidentale in generale, è un problema serio per tutta la Chiesa.

E, qual è il tuo sogno di missione?

I sogni dei missionari sono sempre gli stessi, quando si è giovani si ha voglia di conquistare il mondo, poi man mano che si cresce gli obiettivi si precisano meglio ed il sogno si fa molto più concreto: aiutare le comunità a stare in piedi da sole trasmettendo il gusto della preghiera, dell’ascolto della Parola e della pratica della carità. Se ci siamo tanto impegnati nella promozione sociale è proprio perchè l’uomo deve stare in piedi, solo allora sarà aperto anche all’annuncio di qualcosa di più grande.

Cosa ti piace di più della tua vita di missionario?

Quello che qualifica la vita di un missionario è senza dubbio l’incontro con la gente, siamo mandati ad un popolo ben preciso, con la sua vita, cultura, tradizione. Siamo mandati per facilitare l’incontro di questo popolo col Cristo, non con il missionario, noi siamo nell’ordine degli strumenti. L’incontro con gli altri, la scoperta e la conoscenza dei popoli ai quali si è mandati, sono già missione. L’esperienza del buon samaritano ha sempre il suo valore: curvarsi sulle ferite dell’umanità per prendersi cura del fratello solo, sofferente, emarginato, abbandonato e versare l’olio ed il vino della carità.

Che messaggio vorresti trasmettere ai nostri lettori?

Alla luce dell’esperienza di oggi, credo che tutti siamo missionari, ormai non è più un ruolo affidato solo a qualche specialista, la missione è un’esigenza della fede, è nell’essenza della fede per cui tutti siamo missionari. Dal Concilio in poi questa realtà non cessa di essere affermata, ma siamo ancora ben lontani da una presa di coscienza «popolare» del  fatto di essere  tutti missionari. Sono da trent’anni in Senegal e ogni volta che ritorno in Italia mi accorgo con rammarico  di come la fede stia facendo  dei grossi  passi indietro, in effetti la vera missione oggi è proprio qui, in quelle che erano le zone di «cristianità». Dobbiamo metterci in testa che questo non esiste più, se non diventiamo a nostra volta missionari, sul serio, ancora pochi decenni e la fede sparirà completmente da noi. Allora il messaggio è semplice: che ognuno assuma il suo essere missionario, in famiglia, sul lavoro, nei luoghi di svago, ovunque la Provvidenza ci colloca, per raccontare con la vita la stupenda scoperta di Gesù… Evidentemente prima bisogna scoprirlo, poi lo si potrà annunciare.

Puoi dirci qualche parola chiave del tuo vivere la missione?

In questo momento penso a un paio di parole. 

Inculturazione: facilitare l’incontro  del Cristo con ogni popolo e ogni cultura, non imponendo un sistema, ma lasciando che il Vangelo trasformi e purifichi ogni cultura. Purtroppo, la struttura della Chiesa è troppo rigida e formale per cui in tanti anni di missione si è cercato di trapiantare un sistema che alla fine si identifica col nostro sistema culturale. C’è bisogno di lasciare ad ogni popolo la possibilità di esprimere i contenuti della dottrina nel linguaggio  e nelle modalità tipiche della cultura e della vita di quel popolo. In questo abbiamo ancora tanta strada da fare.

Santità: Papa Giovanni Paolo II diceva che il vero missionario è il santo. Colui che affascinato da Gesù è capace di trasmettere ad altri la sua esperienza e favorisce un incontro reale e profondo di ciascuno con il Cristo. Ecco la frontiera sempre nuova della missione, non solo opere, ma un profondo anelito spirituale nel quale aiutare ciascuno ad incontrare il Cristo. Questa è la vera missione.

A cura di Flavio Facchin omi